Infiammazione nella patogenesi della
schizofrenia
GIOVANNI
ROSSI
NOTE E NOTIZIE - Anno XXI – 09 marzo
2024.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
Nella patogenesi della schizofrenia l’infiammazione
sembra avere un ruolo decisivo nel determinare lo sviluppo della neuropatologia
a parità di profilo genetico ma, ma nonostante le numerose evidenze a sostegno
di questa nozione, molti neuropatologi e psichiatri tendono prudenzialmente a
indicare il processo infiammatorio quale componente fisiopatologica della
patologia cerebrale sottostante le manifestazioni cliniche. Il procedere degli
studi sperimentali, con la notevole mole di dati che cresce ogni giorno, ha
intanto persuaso una parte dei ricercatori che il processo infiammatorio non è
semplicemente il modo in cui un’eziologia ancora in parte da determinare causa
il disturbo, ma ha uno specifico ruolo causale.
Il modo migliore per risolvere ogni dubbio sarebbe
giungere alla definizione di tutti i meccanismi molecolari, cellulari e di
sistema neuronico che portano da un endofenotipo geneticamente determinato alla
neuropatologia schizofrenica, per almeno una buona percentuale di casi,
considerata la nostra tesi dell’eterogeneità del disturbo. Un passo importante
per pervenire a questa meta ideale è senz’altro costituito dallo studio diretto,
sulle persone diagnosticate di schizofrenia, dei processi infiammatori cerebrali.
Non c’è comune accordo sui criteri da adottare per distinguere
in termini neuropatologici le forme del disturbo schizofrenico, ma c’è assoluta
convergenza di opinioni nel ritenere che le forme cliniche resistenti al
trattamento si possano considerare una categoria neurobiologicamente distinta
da quelle cronicamente rispondenti alle terapie standard. Dunque, lo
studio di molecole infiammatorie in queste due classi di pazienti presenta un
carattere di significatività potenzialmente rilevante.
Haidong Yang e colleghi hanno condotto questo tipo di
studio indagando i livelli sierici del fattore di necrosi tumorale α (TNF-α,
tumor necrosis factor) e della metalloproteinasi
di matrice 2 (MMP-2) in due gruppi di pazienti schizofrenici, uno affetto dalla
forma di psicosi resistente al trattamento e l’altro da lungo tempo in terapia con
buona risposta clinica. I ricercatori hanno in particolare studiato il rapporto
tra le due molecole infiammatorie e le manifestazioni cliniche della
psicopatologia nei due gruppi di pazienti.
(Yang
H. et al., Association between elevated serum matrix metalloproteinase-2
and tumor necrosis factor-α, and clinical symptoms in male patients with
treatment-resistant and chronic medicated schizophrenia. BMC Psychiatry 24 (1): 173,
2024 – Epub ahead of print doi: 10.1186/s12888-024-5621-6, March 1, 2024).
La provenienza degli autori è la seguente: Department
of Psychiatry, The Fourth People’s Hospital of Lianyungang, The Affiliated KangDa College of Nanjing Medical University, Lianyungang (Cina);
Suzhou Psychiatric Hospital, Institute of Mental Health, The Affiliated Guangji Hospital of Soochow University, Suzhou (Cina).
Un motivo
aggiuntivo di interesse per lo studio di Yang e colleghi è dato da una
questione di grande rilievo: tutte le categorie di farmaci antipsicotici
attualmente impiegate in terapia agiscono su aspetti della fisiopatologia e non
sulla patogenesi, e si ritiene che le manifestazioni resistenti al trattamento
richiedano farmaci agenti sui processi che generano lo stato di alterazione
funzionale. Infatti in una nostra recente recensione si osservava:
“L’approccio
clinico alla schizofrenia o psicosi schizofrenica prevede la
ripartizione delle manifestazioni in tre gruppi di segni e sintomi: positivi,
negativi e cognitivi. I sintomi positivi, ovvero produttivi,
e in particolare deliri e allucinazioni, sono i più sensibili ai trattamenti con
farmaci antipsicotici. Al contrario, i sintomi negativi, espressione di
deficit funzionali, quali povertà di linguaggio, negativismo, anedonia, anaffettività,
perdita di motivazione e riduzione della reattività emozionale, insieme con un deficit
cognitivo progressivo, sono i più resistenti al trattamento, in quanto non
possono giovarsi dell’effetto dei farmaci attualmente in uso, che tendono a
ridurre l’eccesso funzionale dopaminergico o a riequilibrare altri
neurotrasmettitori, ma non possono surrogare funzioni deficitarie”[1]. Le basi neurofunzionali dei sintomi al livello di
sistemi neuronici sono studiate mediante fMRI, riportando le funzioni alterate
alle tre reti cerebrali principali DMN (default mode
network), CEN (central executive
network), SN (salience network); ma questo tipo di studi ha evidenziato alterazioni in tutte e
tre le reti e nelle loro interazioni in tutti i casi di schizofrenia.
Ci rendiamo
conto della difficoltà a comprendere la portata dei problemi e il valore della
conferma di un ruolo rilevante della patogenesi infiammatoria per chi non abbia
nozioni psichiatriche specifiche e recenti, e dunque per facilitare questi
lettori, come in occasioni precedenti[2], si propongono qui di seguito, come introduzione all’argomento,
brani tratti da nostri articoli. Chi voglia introdursi alla neurobiologia del
disturbo potrà leggere: Note e Notizie 16-09-23 Appunti di neurobiologia
della schizofrenia; per la genetica: Note e Notizie 23-09-23 Appunti di genetica
della schizofrenia; Note e Notizie 21-10-23 Genomica della schizofrenia
e sue implicazioni.
A
proposito della patogenesi: “La patogenesi della schizofrenia rimane
ancora indefinita, nonostante si siano acquisite nel campo della fisiopatologia
nozioni estese dall’ambito neurochimico a quello strutturale, dal livello
sinaptico a quello delle grandi reti neuroniche dell’encefalo. La stessa
genetica che, dal tempo delle analisi di associazione del Psychiatric GWAS Consortium
Coordinating Committee (2009) si è arricchita di una
quantità enorme di dati sui geni di rischio, non ha fornito le indicazioni dalle
quali si sperava di ricavare la ratio di processi paradigmatici per l’eziopatogenesi
di alterazioni probabilmente eterogenee in termini molecolari, cellulari e di
sistemi neuronici, ma accomunate clinicamente da alcuni capisaldi
sintomatologici.”[3]
Anche se
quanto emerso dallo studio qui recensito è prudentemente riportato alla
fisiopatologia, può stimolare anche qualche ragionamento patogenetico. Per
inquadrare le nuove nozioni nell’evoluzione della concezione della schizofrenia:
“La schizofrenia, che interessa l’1%
della popolazione mondiale, costituendo una delle maggiori cause di disabilità
mentale, è la più grave delle alterazioni psichiche che accompagnano l’intera vita
di un paziente psichiatrico, dall’esordio in età giovanile o all’inizio dell’età
adulta fino alla morte, di dieci anni più precoce della media nella popolazione
generale. La concettualizzazione di questo disturbo come malattia delle mente si
deve al grande nosografista tedesco Emil Kraepelin che, prendendo le mosse dal
caso di uno studente brillante diventato inabile per i compiti cognitivi più
semplici dopo la comparsa dei sintomi, identificò un piccolo gruppo di pazienti
con un simile decorso caratterizzato dalla perdita dell’intelligenza e, per
questo elemento che gli parve caratterizzante, propose la definizione
diagnostica di demenza praecox.
Era dunque ben presente l’aspetto
relativo al limite cognitivo, poi per decenni trascurato, soprattutto per l’influenza
delle teorie psicodinamiche sulla genesi del disturbo, che attribuivano a
conflitti inconsci lo sviluppo di un funzionamento mentale aberrante e non all’alterazione
del fondamento neurobiologico cerebrale, necessario anche per i più elementari
processi di estrazione di significato dai messaggi verbali, oltre che per
induzione, deduzione, riconoscimento di nessi di causalità e vincoli condizionali.
Lo stesso Eugen Bleuler[4], che introdusse il termine “schizofrenia” per indicare la frequente scissione
(schizo-) nello psichismo e, in particolare, la separazione del tono
affettivo ed emotivo dalla cognizione espressa nella comunicazione, aveva ben presente
il difetto intellettivo che peggiorava col progredire della malattia.
A quell’epoca, l’opinione degli
psichiatri era concorde nel ritenere questo quadro psicopatologico la
conseguenza di una malattia del cervello con una forte base genetica, e caratterizzata
da un processo patologico che si supponeva diffuso nel parenchima cerebrale,
con particolare compromissione della corteccia, ritenuta la base dei processi
intellettivi. L’unica possibilità esistente a quel tempo di studio del cervello
consisteva nell’osservazione necroscopica e nel prelievo autoptico di campioni
di tessuto cerebrale, per lo studio istologico.
Gli stessi padri fondatori della
neuropatologia, Nissl, Alzheimer e Spielmeyer, condussero ricerche istologiche post-mortem
sul cervello di pazienti schizofrenici, descrivendo apparenti alterazioni che
si rivelarono incostanti e non caratterizzanti[5]. In particolare, nel 1897 Alzheimer segnalò una scomparsa locale di
cellule gangliari negli strati esterni della corteccia cerebrale; Klippel e Lhermitte
(1906) descrissero zone di demielinizzazione focale, il cui reale valore di
reperto istopatologico fu contestato, molto tempo dopo, da Adolf Meyer e poi da
Wolf e Cowen. Anche Buscaino in Italia (1921), capostipite di una famiglia di
neurologi illustri, compì studi neuropatologici sulla struttura del cervello
schizofrenico, descrivendo formazioni a grappolo, che si rivelarono poi artefatti
di preparazione del tessuto. Josephy (1930) descrisse una sclerosi cellulare e
una degenerazione grassa degli strati corticali, che non trovarono riscontro in
altri studi. Bruetsch, nel 1940, credette addirittura di aver rinvenuto dei focolai
reumatici nell’encefalo psicotico; sicuro della bontà e significatività del reperto,
postulò un ruolo eziologico per la febbre reumatica.
Nel 1952 Winkelman riscontrò nel
cervello schizofrenico una perdita diffusa di neuroni, ma furono sollevati dubbi
circa la significatività del reperto che si ritenne potesse essere stato generato
dalle procedure istologiche impiegate. Allora, nel 1954, Cécilie e Oskar Vogt[6], per superare questo problema, allestirono uno studio che prevedeva un’accurata
indagine seriale degli emisferi cerebrali mediante sezioni sottili dello
spessore di 8 μ in uno studio controllato, in cui i reperti istologici dei
cervelli dei pazienti erano comparati con identiche sezioni del cervello di persone
non affette da psicopatologia e decedute per cause non cerebrali alla stessa età.
I Vogt trovarono in tutti i cervelli schizofrenici alterazioni assenti nei
cervelli sani, anche se la localizzazione, l’aspetto istologico e la densità
variavano da un caso all’altro. I tre reperti principali dei Vogt furono cellule
colliquanti (Schwundzellen), degenerazione vacuolare e liposclerosi.
Negli ultimi decenni, dopo oltre
cinquanta anni durante i quali la concezione neuropatologica della schizofrenia
è stata abbandonata in luogo di teorie eziologiche psicoanalitiche, relazionali
e comportamentali, si è tornati su più solide basi, fornite dalle metodiche di
neuroimmagine, dalla nuova genetica e dalle scoperte di neurobiologia
molecolare e neurochimica, a concepire le psicosi schizofreniche come conseguenza
di alterazioni del cervello[7]. Dalle differenze nel metabolismo cerebrale, nell’espressione dei
recettori, nelle dinamiche sinaptiche, negli equilibri fra sistemi neuronici, nelle
funzioni degli astrociti, fino a quelle emerse dallo studio delle connessioni secondo
i metodi del campo specializzato della connettomica, si dispone di un’imponente
raccolta di dati che individua le basi cerebrali di una fisiopatologia, che non
potrebbe essere spiegata nei termini obsoleti della ‘reazione maggiore’,
contrapposta alla ‘reazione minore’ costituita dai disturbi d’ansia”[8].
In passato
abbiamo affrontato il problema allora emergente dell’alterazione della funzione
talamica nella schizofrenia[9]/[10].
A
proposito dell’aver a lungo trascurato in psichiatria i sintomi cognitivi, in
parte coincidenti con alcuni sintomi negativi della schizofrenia, due anni fa si
osservava:
“La
cultura che voleva caratterizzare anche la distinzione fra la neurologia, come
la branca medica che si occupa di ictus, epilessie, tumori, traumi cerebrali, e
così via, e la psichiatria, che si occupa di ansia, fobie, attacchi di panico,
depressione e disturbi con deliri e allucinazioni, sollecitava l’attenzione sui
sintomi “propriamente psichiatrici” della schizofrenia, perché non si cadesse nell’errore
di considerarla una “demenza precoce” come era accaduto nell’Ottocento. Probabilmente,
questa enfasi eccessiva ha portato a trascurare per molto tempo la
considerazione e lo studio sistematico dell’indebolimento cognitivo”[11].
In
realtà, nella clinica psichiatrica del disturbo schizofrenico si distinguono sintomi
positivi, quali deliri
e allucinazioni, sintomi negativi, come
l’anaffettività e il negativismo, e sintomi
cognitivi, quali disorganizzazione del pensiero, linguaggio soggettivo o
inappropriato, deficit di attenzione e memoria, senza contare le frequenti stereotipie
di moto.
Per introdurre
alle interpretazioni neuroevolutive dei sintomi della schizofrenia correntemente
adottate dagli psichiatri, mi rifaccio a un articolo di Rossi del 20 marzo 2021[12]:
“Due anni fa ho ricordato un modello
neuroevolutivo della schizofrenia[13] attualmente oggetto di insegnamento in molte facoltà mediche di tutto il
mondo e proposto per la prima volta da Keshavan nel 1999: durante l’embriogenesi
noxae evolutive portano alla displasia
delle strutture costituenti alcune specifiche reti neuroniche, causando in tal
modo i segni premorbosi cognitivi e psicosociali; durante l’adolescenza,
un’eccessiva eliminazione di sinapsi determina un’iperattività dopaminergica
fasica e precipita la psicosi. Keshavan nota che, dopo la manifestazione clinica
della malattia, le alterazioni neurochimiche possono condurre a processi
neurodegenerativi.
Il motivo del successo di questo
modello è dato dal ‘sostegno’ ricevuto da numerose evidenze sperimentali. In realtà,
si tratta di una ricostruzione ragionevole e coerente con i dati dai quali è
stata desunta, e nulla esclude che sia corretta; tuttavia rimane troppo generica
rispetto all’esigenza di capire perché e come le ‘noxae’ causino una
displasia responsabile di quei sintomi precoci e perché si determini una
perdita di sinapsi che causa iperfunzione dopaminergica[14]”[15].
Lo studio
qui recensito, condotto da Haidong Yang e colleghi, è stato realizzato reclutando 133
partecipanti ripartiti in 3 gruppi: 1) gruppo di 31 pazienti affetti da
disturbo schizofrenico resistente al trattamento; 2) gruppo di 49 pazienti
schizofrenici in trattamento cronico efficace; 3) gruppo di 53 persone non
affette da alcun disturbo clinicamente evidente, corrispondenti per requisiti
ai pazienti e fungenti da controllo. La misurazione dei livelli sierici delle
due molecole infiammatorie, TNF-α e MMP-2, è stata effettuata con il
metodo di rilievo Luminex liquid suspension chip. Per
rapportare i livelli delle due molecole al tipo e al grado delle manifestazioni
patologiche sono state adoperate due batterie validate: la PANSS (Positive
and Negative Syndrome Scale) che rileva e stima per gravità i sintomi
positivi e negativi diagnostici, che abbiamo più sopra menzionato, e la Repeatable Battery for
the Assessment of Neuropsychological
Status, uno strumento che si avvicina alla concezione del test-training
cognitivo assistito da computer introdotto in Italia da Luciano Lugeschi e in
grado di fornire una stima delle prestazioni cognitive, evitando il problema
della facilitazione da apprendimento tipico dei vecchi test neuropsicologici.
I risultati sono eloquenti. I livelli di TNF-α
e MMP-2 differivano significativamente tra i pazienti schizofrenici dei due
gruppi e i volontari sani del gruppo di controllo. La correzione di Bonferroni
del calcolo statistico ha dimostrato che i livelli sierici di TNF-α erano
significativamente elevati nei pazienti in trattamento cronico efficace, mentre
i livelli di MMP-2 erano notevolmente più alti negli schizofrenici resistenti
alle terapie che nei volontari sani del gruppo di controllo.
Negli affetti dalle forme non trattabili, il TNF-α
era negativamente correlato con l’età dei pazienti e con l’età di esordio della
schizofrenia. Nei pazienti in trattamento cronico efficace TNF-α e MMP-2 erano
correlati negativamente la PANSS “negativa” e col punteggio cognitivo totale; TNF-α
era correlato negativamente con la PANSS “generale”, ossia con i punteggi
psicopatologici generali. Infine, i livelli di MMP-2 erano positivamente
correlati con i livelli di TNF-α, ma non con la funzione cognitiva.
L’analisi accurata di tutto quanto emerso indica la partecipazione
dell’infiammazione all’eziologia di tutte le forme di schizofrenia del
campione. Un risultato che incoraggia la prosecuzione degli studi e la verifica
su grandi numeri.
L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e
invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del
sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giovanni
Rossi
BM&L-09 marzo 2024
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La Società Nazionale
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è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data
16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica
e culturale non-profit.
[1] Note e Notizie 18-11-23 Reti alterate nella schizofrenia con sintomi negativi
persistenti.
[2] Si veda Note e Notizie 18-11-23
Reti alterate nella schizofrenia con
sintomi negativi persistenti.
[3] Note e Notizie 04-03-23 Il deficit di recettori H2 nella patogenesi della
schizofrenia.
[4] Sulla storia delle origini della
diagnosi di schizofrenia e sull’evoluzione del concetto in psicopatologia vi sono
numerosi riferimenti negli scritti pubblicati nelle “Note e Notizie”; nella
sezione “In Corso” sotto il titolo “La concezione dei disturbi mentali nella storia”
si può leggere una cronologia che, in brevissime sintesi concettuali, elenca l’evoluzione
che si è avuta nel concetto di malattia mentale dalle prime tracce scritte, risalenti
al 3400 a.C., fino ai giorni nostri.
[5] Le nozioni storiche riportate di
seguito sono tratte da una relazione del nostro presidente; per le indicazioni
bibliografiche complete si veda in Silvano Arieti, Interpretazione
della Schizofrenia, in 2 voll., Feltrinelli, Milano 1978.
[6] Ai coniugi Vogt è intitolato un
istituto di ricerca nel quale è esposta un’interessante collezione di cervelli.
Oskar Vogt divenne celebre per lo studio del cervello di Lenin, nel quale
rilevò cellule piramidali giganti della corteccia di dimensioni notevolmente
superiori alla media.
[7] Sicuramente una parte non
trascurabile in questa evoluzione l’hanno avuta i numerosi istituti di ricerca
che hanno dedicato le proprie attività alla ricerca di correlati neurobiologici
dei disturbi mentali e le riviste, come Molecular Psychiatry, che hanno
consentito la diffusione della conoscenza di risultati che hanno modificato dei
punti di vista che resistevano da decenni.
[8] Note e Notizie 16-11-19
Trattamento cognitivo della schizofrenia. Si veda anche: Note e Notizie 07-12-19
Differenze in S100b tra persone affette da schizofrenia.
[9] Note e Notizie 17-03-21
Alterata funzione del talamo nella schizofrenia.
[10] Note e Notizie 03-07-21 Talamo
anteriore nei difetti cognitivi di autismo e schizofrenia.
[11] Note e Notizie 27-02-21 Il
deficit cognitivo della schizofrenia è legato alla disbindina. Si veda
anche lo studio maggiore sui rapporti fra geni associati alla schizofrenia e
volume delle aree cerebrali sottocorticali: Note e Notizie 20-02-16 Influenze genetiche su schizofrenia e volume
sottocorticale. Per i rapporti con la morfologia si veda anche: Note e Notizie 21-11-15 Nella schizofrenia
la normale asimmetria emisferica è ridotta e alterata e Note e Notizie 14-02-15 Segni di schizofrenia che precedono i sintomi
per una diagnosi precoce.
[12] Note e Notizie 20-03-21
Patogenesi della schizofrenia da splicing alternativo. Per questa patogenesi
si legga il testo integrale dell’articolo.
[13] Note e Notizie 16-02-19 Nella
schizofrenia la microglia riduce le sinapsi.
[14] È evidente la costruzione
deduttiva da dati e inferenze precedenti. Quando è stato proposto il modello, il
campo di studi della fisiopatologia della schizofrenia era ancora dominato dall’ipotesi
dell’iperfunzione dopaminergica, desunta dall’azione anti-dopaminergica di fenotiazinici,
butirrofenonici e altri neurolettici di prima generazione efficaci nel ridurre
deliri e allucinazioni degli schizofrenici. Negli ultimi venti anni si è
consolidata l’evidenza della partecipazione di tutti i sistemi trasmettitoriali
alla fisiopatologia, con una prevalenza di interesse anche farmacologico per i
sistemi neuronici a segnalazione glutammatergica.
[15] Note e Notizie 20-03-21
Patogenesi della schizofrenia da splicing alternativo.